Santantoni te lu fuecu nimicu te lu timoniu. Dall’eremo alla stalla.

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Santantoni te lu fuecu nimicu te lu timoniu. Dall’eremo alla stalla.

 

Storia di Sant’Antonio abate e del suo culto
A Novoli si stà completando la costruzione dell’imponente Fòcara dedicata a Sant’Antonio Abate, dopo la processione del 16 gennaio i ragazzi sfileranno con 50 bandiere di nazioni diverse che infilzeranno a cerchio nelle sarcine e seguirà l’accensione e brucieranno come simbolo di pace nel mondo.

«L’Antonio eremita che vive solo nel deserto è lo stesso Antonio circondato di fedeli che invocano la guarigione, l’Antonio accompagnato da un maialetto dei dipinti trecenteschi è ancora l’Antonio dei santini, circondato dagli animali da stalla e da cortile, l’Antonio che cura i malati di fuoco sacro è l’Antonio che protegge il bestiame dalle malattie e la casa del contadino dagli incendi»: queste sono solo alcune delle sfaccettature della figura di sant’Antonio abate e del culto a lui tributato nel bacino mediterraneo nel corso dei secoli.

Attraverso testi e immagini ricostruire una storia iniziata nel IV secolo dopo Cristo che vede l’asceta trasformarsi da santo eremita e poi taumaturgo a santo contadino e protettore degli animali.

Emergono «i meccanismi attraverso i quali si produce una devozione e un ordine religioso si innesta, talea floridissima, su un culto già radicato da secoli, e lo plasma, lo modifica, lo influenza a tal punto da renderlo, a prima vista, quasi irriconoscibile. Quello che la storia e le rappresentazioni dell’anacoreta della Tebaide, Antonio, dimostrano con chiarezza è il complicato processo attraverso il quale anche dalle immagini, costruite per specifiche esigenze di devozione, a memoria di attività economiche e terapeutiche, nascono nuovi testi e nuove leggende, pronte, ancora una volta, a dar luogo a innumerevoli raffigurazioni, in un continuo processo biunivoco di vasi perennemente comunicanti tra loro».

Una vicenda complessa e appassionante come un romanzo, cominciata nel lontano IV secolo dopo Cristo, e che ha visto – nel susseguirsi di leggende, culti, superstizioni e rappresentazioni – la trasformazione dell’asceta da santo taumaturgo a santo contadino e burlone.

Per comprendere questi passaggi basta prendere in esame tre immagini di epoche diverse che ritraggono Antonio.

In un dipinto su tavola del 1353, Antonio è vestito di un abito scuro e di un mantello bruno, è in piedi in un paesaggio roccioso dove germogliano sparuti due alberelli, si appoggia a un nodoso bastone da eremita, reggendo con l’altra mano un volume rilegato. Ai suoi piedi trotterellano due maialetti neri. Accanto al santo si affollano donne e uomini, rigidamente divisi in base al sesso. Inginocchiati, stanno chiedendo la grazia, la salute, la salvezza per se stessi o per i loro cari.

Due secoli dopo, in un foglio a stampa cinquecentesco variamente riprodotto e di grande diffusione, lo schema iconografico è assai simile, nonostante le differenze di tecnica esecutiva, stile, materiale, contesto. Dettaglio nuovo è quello del fuoco che fiammeggia ai piedi del santo e sembra sgorgare dal trono stesso.

Infine, in uno dei tanti e popolarissimi santini dedicati all’eremita alla fine del XIX secolo sono cambiate le figure che lo attorniano: non più devoti inginocchiati che chiedono la grazia, non più malati e infermi in ginocchio ma animali, una mucca, un cavallo, l’immancabile maiale, e sullo sfondo un paesaggio campestre, dove brucia il tetto di un edificio in pietra, forse la stalla dove Antonio alla fine risiede.

È dunque attraverso l’iconografia che indaga con quali strategie viene di volta in volta promosso il culto per Antonio e come vengono costruite le immagini destinate a perpetuarne la memoria.

Tratto dal libro di Laura Fenelli
Rilevatore Ersilio Teifreto autore del sito www.torinovoli.it info@torinovoli.it