Storia dell’uomo che pianta gli ulivi
di FULVIO COLUCCI
PALAGIANELLO – Vincenzo Fatiguso non ha mai smesso di piantare alberi. Ma sbagliate a immaginarlo uomo chiuso, taciturno e duro come il vecchio contadino che restituisce l’ombra alla Provenza, nel racconto dello scrittore francese Jean Giono.Vincenzo, a ottant’anni parla, eccome. Sarà il sole del quale cerca l’affettuoso tepore quotidiano, sarà la dolcezza della terra, solcata dal fiume Lato, lì a contrada Difesella. Sarà la confidenza con gli alberi: «Loro ogni giorno mi raccontano una storia. E io ascolto e rispondo»
Rilevatore Ersilio Teifreto/Storia dell’uomo che pianta gli ulivi di FULVIO COLUCCI PALAGIANELLO – Vincenzo Fatiguso non ha mai smesso di piantare alberi.
di Fulvio Colucci
PALAGIANELLO – Vincenzo Fatiguso non ha mai smesso di piantare alberi. Ma sbagliate a immaginarlo uomo chiuso, taciturno e duro come il vecchio contadino che restituisce l’ombra alla Provenza, nel racconto dello scrittore francese Jean Giono.Vincenzo, a ottant’anni parla, eccome. Sarà il sole del quale cerca l’affettuoso tepore quotidiano, sarà la dolcezza della terra, solcata dal fiume Lato, lì a contrada Difesella. Sarà la confidenza con gli alberi: «Loro ogni giorno mi raccontano una storia. E io ascolto e rispondo». Sarà proprio una vita di lotta allo sfruttamento attraversata con orgoglio: «È assai la storia» esclama di continuo e sembra tornare ai suoi sedici anni, a quando si iscrisse alla Flai Cgil, il sindacato degli agricoltori, appena finita la Seconda Guerra mondiale, sognando l’incontro con il leader: Peppino Di Vittorio: «Alle manifestazioni issavo un cartello: vogliamo la terra per seminare, l’acqua per irrigare, il lavoro per vivere». Così Vincenzo dà linfa alla memoria per tenerla viva e farla continuare a crescere, come tutto il verde che lo circonda: «Tu devi fare un cerchio intorno con la zappa e dare l’acqua».
Ha combattuto la schiavitù delle campagne il contadino classe 1933: «Perciò diventai comunista». Oggi, purtroppo, vede tornare un passato che pensava sepolto: «Padroni e caporali sfruttano. Guardo gli immigrati nei campi e dico: è tornata, è tornata. Maledetta schiavitù».
Certo, il destino gli ha risparmiato le asperità d’alta quota, le lande desolate, nude, monotone, esposte al vento più crudo della Francia meridionale, i lutti che invece costellano la vita dell’Uomo che piantava gli alberi di Giono.
«È assai la storia», ripete Vincenzo, spargendo aneddoti come semi, offrendo l’esatta misura di quello che lo accomuna al vecchio di Provenza, quell’ “eterno contadino” che Pasolini riteneva unisse, nell’umile purezza, nell’innocenza preindustriale, tutti i lavoratori della terra nel mondo: «Perché la personalità di un uomo riveli qualità veramente eccezionali, bisogna avere – scrive Jean Giono – la fortuna di poter osservare la sua azione nel corso di lunghi anni».
La fortuna è il racconto di Vincenzo Fatiguso, nel nome un destino e i suoi ulivi piantati quando morivano altri ulivi, quelli della terra dov’è sorta l’Ilva. «Ogni albero ha la sua storia e se proprio vuoi fotografarmi ecco: qui c’è uno degli ulivi piantati nel 1960, quando stavano costruendo l’Italsider».
L’albero sembra parlare attraverso i suoi tronchi nodosi, il respiro glauco delle foglie, il suo declinare verso la luce. Lui testimone del tempo, figlio salvato al “genocidio” perpetrato in nome delle magnifiche sorti e progressive dell’acciaio, dello sviluppo, della modernità. Non del progresso, della fatica impressa per produrre beni durevoli: «Lavoravo al torchio da ragazzo. Ancora sento la fatica: tiravo con le corde quel mostro di quattro quintali. Mangiavamo solo pane durante la guerra, quando c’era».
La voce dell’ulivo e quella di Vincenzo Fatiguso: s’accordano. «L’ho piantato il giorno di Pasqua. Avevo trovato un ramo selvatico nella gravina di Palagianello. Ha preso ed eccolo qui. Per dirti, la mia è una questione d’istinto. Nel 1980 ho messo nella terra centinaia di Pini d’Aleppo e di carrube a Palagianello. L’ho fatto con gli alunni delle scuole e nella pineta. Dicevo a tutti: i bambini devono imparare dagli alberi».
«Hai visto qui in campagna? Ho piantato i datteri e sono diventati grandi. Sai perché? Perché qui sono felici. Ci vuole tempo, pazienza, ma loro sono felici. Di piante ne ho salvate tante e sono felice anche io quando le vedo crescere. Ogni albero ha la sua storia. Prendi questo pero. Vuole raccontare e persino le cicale lo stanno a sentire quando si fermano e non cantano. Alcune piante sono nate da sole. Hanno bisogno di acqua e silenzio». E senti quasi levarsi la loro parola nella brezza lieve: «Qui le piccole cose hanno la loro felicità» come la pianta dei fagiolini. Vincenzo la guarda come fosse una figlia: «Si raccolgono a luglio» e la foglia larga sembra la mano di un uomo sulla quale leggere la vita.
«Te l’ho detto: è assai la storia! Andavo in campagna con mio padre. Mi ricordo la sua mano callosa e grande. Avevo paura. Mio padre, però, era un uomo buono. A sette anni seminavo, seguendo il solco tracciato dal cavallo che trainava l’aratro. Poi la guerra, il fondo distava dodici chilometri da Palagianello. Ci arrivavamo scalzi. Le spine torturavano la pianta dei piedi e se pioveva potevi ripararti solo sotto un sacco. E chi le aveva le scarpe in tempo di guerra? Tanti gli anziani che tornarono nei campi per necessità di vivere, perché i figli erano andati a combattere, erano morti e nessuno poteva più aiutarli. Facevano le olive e rientravano al tramonto in paese, stanchi, con quel poco che avevano raccolto. Provavo grande pena».
«Ci sfamavano le fave, il grano metà lo requisivano. Ricordo ancora il grido di mio padre quando portarono via quintali su quintali: « Così togliete il pane di bocca ai miei bambini!». A quindici anni ho fatto il pastore. Solitaria, la vita del pastore. Solitaria e dura: ti alzi alle quattro per mungere e poi porti le pecore al pascolo. Hai un padrone e poi il silenzio, che è più padrone ancora. Poi son tornato alla terra perché avevo nostalgia e mi sono riunito alla famiglia, ai miei fratelli».
«È vedere lo sfruttamento degli uomini e delle donne ad avermi spinto verso le lotte bracciantili. Abbiamo lottato per avere i terreni con la riforma fondiaria nel 1952. I padroni davano il campo a mezzadria e poi trovavano mille scuse per riprenderselo: non hai arato, non hai potato. Io la testa non l’abbassavo mai, anzi. Ricordo chi stava peggio dei contadini. I cavamonti, per esempio. Con il piccone scavavano e tagliavano il tufo, un lavoro pesantissimo. Lo facevano portandosi i figli alle cave vicino al cimitero. Guadagnavano una miseria: un centesimo a tufo. Quando arrivavano i sindacati e l’Ispettorato del lavoro scappavano. Un giorno, riuscirono ad avvicinarli. Perché scappate, chiesero gli ispettori. Hanno detto – risposero – che quelli in giacca e cravatta vogliono farci del male. Spiegando chi erano realmente, i loro occhi sembrarono aprirsi».
«Abbiamo lottato tanto. Abbiamo ottenuto qualcosa» dice Vincenzo accarezzando il piccolo cane volpino in una pausa del suo girellare nei campi inseguendo il padrone. «Oggi lo sfruttamento è tornato peggio di prima. Io ho paura per i giovani perché li vedo fermi a subire. In più c’è la crisi e i raccolti o li regali o li butti. Però io dei giovani mi preoccupo». Vincenzo indica il jeans da lavoro: «Oggi la povertà è di nuovo qui. Vedi questa toppa? Per me è facile tornare indietro, riadattarmi, curarmi con le piante se mentre poto un albero mi taglio. Ma chi non ha vissuto tutto quello che ti ho raccontato come fa?».
L’uomo che pianta gli ulivi lavora il legno. All’ingresso della proprietà ha costruito una scultura. Rappresenta un contadino: «Il simbolo dei lavoratori della terra. L’ho scolpita sette anni fa. Una piantina di pinoli era cresciuta e le radici si erano gonfiate al punto da creare problemi alle chianche del pavimento. Ho tagliato la pianta e ho fatto questo lavoro».
Sembra un monumento preistorico. Di più: sembra la conferma che Vincenzo, la sua arte siano una forza del passato presentissima e ingenua, cioè libera da qualsiasi schema che non sia la vita, la vita nei campi.
Nel 1980 il contadino recuperò dalla periferia del paese un vecchio traino abbandonato. Le ruote sono diventate il cancello d’ingresso e sui raggi, come simboli, gli attrezzi da lavoro: dalla zappa all’aratro.
Ma è il santuario costruito, scultura dopo scultura e custodito da Vincenzo nella casa di Palagianello, a destare stupefatta meraviglia. Un vero museo della civiltà contadina intagliato nel legno: tra girasoli, attrezzi, arcaiche rappresentazioni della vita dei campi che ricordano le sculture della civiltà Inca, a conferma dell’eterna trasversalità della tradizione: l’amore per la terra che abbraccia il pianeta e che viene prima della storia e dello Stato.
Una cartolina ingiallita dal tempo rimane da tempo immemore semi-nascosta tra gli attrezzi. Rappresenta il dipinto di Pellizza da Volpedo: «Il Quarto Stato». Lavoratori in sciopero e in cammino, i palmi delle mani aperti, stimmate dei campi e delle officine. Sul retro il saluto: «Ai cari compagni contadini. Lavorate bene». Spedita da Roma nel 1985. All’epoca Vincenzo Fatiguso continuava a piantare alberi nella campagna a un passo dal fiume Lato, perché era ingiusto vederli morire, uccisi dall’industria. «La cartolina me l’ha inviata una persona che faceva politica» ricorda il contadino, rigirandola tra le dita. Poi sbotta quasi sentisse scottare quel senso di storia e di Stato come una febbre estranea alla felicità solitaria e senza tradimenti dei campi a Mezzogiorno: «Nel 1970 occupammo la strada a Palagianello. Ero dirigente sindacale. Sbarrammo la via con i copertoni delle gomme. Finimmo in tribunale e fui assolto. Nel 1975 toccò alla ferrovia. Sempre per difendere i diritti dei lavoratori. Ho un mutuo. La fine del comunismo mi ha umiliato. Perciò questa politica non mi interessa più».