Nella sacrestia della chiesa abbaziale di sant’Antonio di Ranverso si conserva questa “Salita al Calvario” di Giacomo Jaquerio, uno dei maestri del gotico piemontese (1430 ca.). Gesù è umiliato da una torma di armigeri e sgerri, espressione di un caos mondano e preludio al sacrificio ultimo.

 

  Sant'Antonio di Ranverso e il tema astrologico indiano

Nella sacrestia della chiesa abbaziale di sant’Antonio di Ranverso si conserva questa “Salita al Calvario” di Giacomo Jaquerio, uno dei maestri del gotico piemontese (1430 ca.). Gesù è umiliato da una torma di armigeri e sgerri, espressione di un caos mondano e preludio al sacrificio ultimo.
In alto sopra alla croce, da sinistra verso destra, si riconoscono tre asterismi. Un’albarda a forma di stella e due stendardi rispettivamente con gli emblemi di un drago e di uno scorpione (il secondo ripetuto in basso a sinistra). Si tratta di tre immagini che riconducono al pensiero astrologico.

 

La vicenda di Gesù, Salvator mundi e Sole del mondo, è anticipata astralmente dal Sole nel suo percorso verso l’occultamento invernale, verso gli inferi e il segno della sua discesa è la costellazione dello Scorpione. La stella, la costellazione del Serpente (effigiato dal drago) accanto a quella dello Scorpione esemplificano questo tragitto. La stella, poi, rappresenta una terza costellazione, Eracle; personaggio ben noto nell’antichità per essere disceso nei penetrali di Ade a caccia del suo guardiano, Cerbero. Eracle-Serpente-Scorpione raccontano una vicenda sacrificale presente nella più antica astrologia indiana. Ma com’è finito un tema astrologico indiano in un affresco della Val di Susa?

Gran parte delle conoscenze astrologiche del mondo antico sono infatti trasmigrate nell’Occidente latino attraverso la mediazione dell’Introductorium maius ad astrologiam (= Kitab al-madkhal al-kabir ‘ala ‘ilm ahkam al-nujum) di Abu Ma‘shar, meglio noto come Albumasar, scritto a Bagdad nell’848 e tradotto in latino prima da Giovanni di Siviglia, nel 1133, e in seguito da Ermanno di Carinzia, nel 1140. Un compendio di disciplina astrologica che lo stesso Abu Ma‘shar probabilmente ricavò da una traduzione pahlavi (cioè persiana) dei Paranatellonta di Teucro di Babilonia (I sec. a.C.), nei quali era inclusa una versione del Brhajjataka di Varahamihira, astrologo e astronomo indiano vissuto a Ujjani, presso la corte di Vikramaditya.

Verisimilmente, le dottrine astrologiche dalla Grecia sono passate al mondo iranico e da lì sono ritornate in Occidente. A seguito dell’editto del sassanide Shabuhr I (240-270 d.C.), in Iran venne infatti portata a termine una «secolarizzazione» degli scritti greci disseminati nelle più remote province dell’ecumene mazdea. Un processo di assimilazione iniziato probabilmente secoli prima, in epoca achemenide, quando i dotti iranici avevano già avuto tutte le opportunità di addentrarsi nei misteri delle cose celesti, apprendendo dai maestri della Mesopotamia tecniche, terminologie e dottrine, ma non necessariamente l’astrologia in senso stretto.

Ezio Albrile