“La luna e i falò”: il bisogno incondizionato di farsi “terra e paese”
giugno 8, 2014 Cultura, Letteratura, News, Slide No comments
“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.”
(Cesare Pavese, La luna e i falò , 1950)
Anguilla, protagonista del romanzo La luna e i falò , è un personaggio dalla storia travagliata, intensa, travolgente. È un trovatello della valle del Belbo di cui due dannati (come li definisce Pavese) quarant’anni prima si sono fatti carico, mossi dalla misera necessità di ricevere uno scudo d’argento mensile. È un ragazzino che ha portato sulle spalle il peso di un disprezzo ingiustificato, sciocco, riservato solo ai bastardi in affitto. È un giovane che rifiuta una vita di miseria, disprezza quella sterile, l’opprimente mentalità, sfugge a quel cimitero di sogni. Così, nella speranza di assorbire i benefici di una prima, tiepida gioia, attraversa l’Oceano e si reca in America, il continente felice, quel paradiso di libertà straordinariamente diverso dalle sue sinuose colline, da quella piatta esistenza, dove scopre il grande e imprescindibile diritto alla dignità.
Cesare Pavese
Passano gli anni senza che Anguilla, oramai divenuto un uomo di successo, ritorni nella terra della sua prima gioventù, di cui si sforza di ignorare il sonoro richiamo. Anguilla non può risalire a ciò da cui proviene, non può conoscere la matrice che l’ha originato. Egli ha l’unica possibilità di costruire il passato a partire dai suoi primi ricordi, dai suoi primi insegnamenti di vita. E così gli ritorna in mente la collina sinuosa, gli immensi vigneti, il piccolo, arretrato centro di provincia, il suo inizio, la sua inevitabile fine. E in questo turbinio di reminiscenze Anguilla, ormai indipendente, oramai scevro da ogni legame, sceglie la sua casa, il suo terreno fecondo originario, lo stesso da cui è fuggito, lo stesso di cui ha bisogno.
Anguilla è un moderno eroe dell’indipendenza, della tenacia, del cambiamento, ma è anche l’epico eroe del nòstos , del ritorno, della ciclicità della vita umana. È un uomo in cui, dopo le più varie esperienze, si fa largo il solo pressante desiderio di calpestare la polvere della sua terra.
Il protagonista è anche la dimostrazione che la patria non è necessariamente quel luogo in cui si è nati, ma è quel luogo che, senza una particolare ragione, esercita una potente, incontrastabile attrazione, andando oltre ogni confine, oltre ogni oceano, perché insito in ciascuno di noi. La patria di Anguilla è quel luogo per nulla idilliaco, imperfetto, a volte disprezzabile.
Casa di Cesare Pavese, stessi luoghi dove ha ambientato il suo romanzo “La luna e i falò”
Ma è anche quel luogo che lo accoglie, che gli trasmette un mancato calore materno. Tuttavia, proprio adesso che Anguilla è ritornato, tutto ciò che aveva immaginato di rivedere, tutte le persone che desiderava rincontrare non vi sono più, a eccezione dell’amico d’infanzia Nuto, uno che la realtà della guerra l’aveva vissuta, un uomo di concreta saggezza. Non rimangono altri amici d’infanzia, né le tracce dei suoi amori adolescenziali. Non rimangono nemmeno più i noccioli. Rimane solo la luna, il suo influsso sulla terra, il suo tiepido bagliore. E rimane il magico fuoco dei falò, quello che distrugge, quello che incenerisce i ricordi.
E adesso, nel suo amato paesino di collina, si ritrova a fissare gli occhi di povere anime spezzate dagli orrori della grande guerra, oramai prive persino di quell’unica, vaga speranza di felicità. Adesso assiste al trionfo della disperazione, comprende, sconvolto, che di ciò che è stato resta solamente “il segno, come un letto di un falò” , e si domanda se non sia errato sognare un proprio, piccolo mondo che lo rappresenti, che non lo dimentichi, che valga tutte le ragioni del suo ritorno.
Oggi più che mai, questo romanzo di C. Pavese parla di noi italiani. Quanti giovani preferiscono andare via, lasciare la propria amata terra, tanto bella quanto ingrata, per mettere a frutto le proprie conoscenze o semplicemente per poter vivere?Oggi che abbandonare il proprio luogo di provenienza, la propria casa, i propri affetti è più un istinto di sopravvivenza che uno spassionato desiderio di conoscere nuove realtà, cosa ne sarà delle nostre radici ? Noi, erranti nella speranza di qualcosa di migliore, appassiremo o troveremo il nostro terreno fecondo in cui mettere radici?Del resto non è per niente facile trovare un luogo da chiamare casa ovunque.