INTERVISTA
Da Francesco Mencio, per esempio, ho appreso la ‘flemma’, da
Umberto Mastroianni la ‘veemenza’, da Corrado Cagli l’‘essenzialità
della linea’; da Renato Guttuso la ‘gestualità e la forza del colore’,
mentre da Domenico Purificato la ‘poesia’ e da Giacomo
Manzù la ‘riservatezza’. Ognuno di loro mi ha dato tanto ma, in
particolare, mi hanno trasmesso la gioia nel dipingere, la forza di andare
avanti per poi trasferire alle giovani generazioni (con l’Associazione,
Esposito continua a stabilire accordi di cooperazione
tra l’Università “Amicizia dei Popoli” di Mosca e con vari dipartimenti
del Politecnico di Torino, ndr) l’armonia tra segni e colore,
l’arte come messaggio, comunicazione e via per rendere la vita più
umana e libera”.
E il Carlo Levi uomo, scrittore, politico e pittore cosa gli
ha lasciato in eredità e come è nata la vostra amicizia?
“Levi era una persona ricca di umanità. Sì, lui mi ha insegnato
l’umanità, il ‘sentimento’, quello dal quale prende vita l’arte e attraverso
cui è possibile comprenderla. La sua non era una pittura frutto
di razionalità, piuttosto di un approccio intuitivo della realtà.
La nostra amicizia è nata e si è consolidata per diversi motivi
legati da varie circostanze: lui torinese confinato ad Aliano; io lucano
immigrato a Torino. Lui pittore, io litografo; io di origine albanese, lui
con la segretaria e cuoco originari di Scutari. Io comunista e lui indipendente
di sinistra ed ex senatore nel Pci. Lo conobbi negli ultimi
anni della sua vita: ci incontrammo nel suo studio romano e, poi,
nell’Ottobre del 1974 ci rivedemmo nel mio laboratorio per realizzare
una cartella di 7 litografie del suo ‘Cristo si è fermato a Eboli’.
Lui non voleva ma poi pensando ai volti dei contadini lucani arsi
dal sole, si decise. Partecipai con lui alla sua ultima mostra Antologica
a Palazzo Te a Mantova, dove esponemmo anche queste litografie
con la presentazione di Italo Calvino e, prima che morisse,
riuscimmo anche a tornare insieme in Basilicata, a Matera e nel
mio paese natio, a San Costantino Albanese.
Visionario, naturalista essenziale, un artista “sentimentale”.
Quale aspetto ritiene sia stato predominante nella produzione
artistica post-lucana esposta da Levi alla XXVII Biennale veneziana
del 1954? In quell’occasione, infatti, Roberto Longhi ritenne
le opere realizzate dopo l’esperienza di confino in
Lucania “cronaca spenta, opaca” attribuendo, invece, ai lavori
precedenti una dimensione europeistica.
“La pittura post-lucana di Levi non fu per nulla spenta: certo,
c’erano messaggi sociali più che materia artistica; c’era la denuncia
verso una società borghese e di ricchi, paradossalmente la stessa
dalla quale egli proveniva (era di famiglia ebrea agiata) e che
aveva, sino al momento dell’esilio, frequentato. Levi non era affatto
un conformista, nemmeno artisticamente: proveniva dalla scuola del
Casorati e, dopo aver abbandonato il manierismo artistico francese,
all’epoca in cui lo conobbi andava in voga il gruppo ‘I sei di Torino’.
Ma lui aveva altre ambizioni. Si rintanava nella casa che aveva ad
Alassio in mezzo agli ulivi e cercava di usare la materia per imprimere
il suo pensiero, epurato dal mero intellettualismo. Credo che
la ‘forza’ di Levi pittore provenga da questo e che l’esperienza vissuta
in Lucania abbia contributo sensibilmente a rendere la sua pittura
più intensa ed espressiva di quella praticata nei periodi
precedenti”.
Ci svela qualche aspetto inedito di Levi e del suo rapporto
con la Basilicata?
“Levi amava la Basilicata e si sentiva anche lui lucano. Anche
se in esilio, ad Aliano è riuscito ad estrinsecare non solo la vena
poetica ma anche quella artistica. Inoltre, nell’esercitare la sua professione
medica, persino di notte visitava e cercava di guarire la
gente ammalata di malaria con le medicine che la sorella Luisa gli
mandava, di nascosto, da Torino. Era una persona che amava parlare
e quando lo faceva incantava tutti; con la gente lucana (e non
solo) è stata sempre generosa: persino alla comunità di San Costantino
Albanese ha voluto lasciare qualcosa di sé. In occasione
della festa organizzata in suo onore, Levi per ringraziare dell’affetto
ricevuto prese del carbone dalle braci ardenti del fuoco dove si arrostiva
e realizzò, di getto, su di una parete della sede della Pro
Loco, un murales rappresentante i volti dei giovani del posto in vestito
tradizionale. Questa fu la sua ultima opera”.
A sinistra, Francesco Esposito con allievi universitari, a destrra con Levi