l’istituto degli Ospedalieri di Sant’Antonio: i monaci indossavano un abito nero, segnato sul petto da una croce in forma di “T” in panno azzurro. Gli Antoniani furono i veri anticipatori di tutti gli ordini Ospedalieri.

ene da solo. Non avere famiglia mi ha aiutato; la femme d’artiste, poi, è la peggiore di tutte, fa fare i falsi per venderli quando sei morto”. Fra gli artisti emergenti di allora, una predilezione per coloro che, viaggiando, si erano riscattati dal provincialismo dell’entourage torinese: Kiki Maciotta, Lorenzo Alessandri, e soprattutto Michelangelo Pistoletto, “un ottimo ragazzo” che proprio la Galatea tenne a battesimo per la prima personale nel ’60. “Mi è sempre piaciuto aiutare i pittori giovani, o in difficoltà: quando posso faccio comprare dagli amici o da chi mi chiede un consiglio i loro quadri, non per generosità, ma per amore dell’arte. Il nostro è un mestiere fantastico”. Intanto, Colombotto Rosso esponeva nelle più importanti gallerie europee e statunitensi. Si può suddividere la sua ricca produzione artistica in periodi o fasi tematiche? “Ho utilizzato tutte le tecniche, meno il pastello; tempera, olio, e anche molti disegni e incisioni che però in Italia vengono apprezzati solo quando sei morto. Il tema invece è sempre il mio; mi interessano i volti e mi attraggono quelli che esprimono angoscia. Andavo spesso a osservare i ricoverati nei manicomi; però ritrarre visi drammatici è per me un processo ipnotico, quasi automatico, che non corrisponde alla mia interiorità. In questo ho parenti illustri, nella pittura classica, che rappresentano la mia famiglia ideale”. Forse Bosch, Bruegel, Böcklin, i surrealisti, l’art nouveau… E se Colombotto Rosso, come Dorian Gray, avesse mantenuto un’anima immacolata trasferendo le sue inconfessabili ossessioni sulle tele? Mentre mi interrogo, il maestro sfi ora incuriosito il mio girocollo di rose rosse seccate. “Ma che bella collana da martire. Le spine ti faranno sanguinare il collo…” scherza maliziosamente. Sfogliamo l’album fotografi co Secret Vices, sulla cui copertina trionfa il giovane Enrico che, seminudo su una scogliera, agita al vento un lenzuolo come l’ala di un angelo. E poi, eccolo in Corsica lambito dalle onde o decorato di piume e turbanti, e a Camino, ritratto da Mario Monge con un uovo (uno dei suoi temi ricorrenti). Immagini dominate dalla sua ombrosa bellezza, dal suo sguardo ardente e malinconico, e curate come allestimenti scenici. D’altronde, nemmeno l’esperienza teatrale è mancata all’artista, che negli anni Settanta collaborò col Teatro Stabile di Torino come scenografo per Danza di Morte di Strindberg e Le jeu du massacre di Jonesco e disegnò i costumi per Salome di Oscar Wilde. “Col cinema invece, dopo aver disegnato una quantità di costumi per due film poi mai realizzati, ho chiuso. Quando mi c h i e d o n o qualcosa, io adesso scappo”. Mai stato tentato dall’insegnamento? “Mai. Non si può essere davvero creativi se si insegna all’Accademia e si disegna alla domenica. Vengono però in tanti a chiedermi giudizi sui loro lavori, e io dico sempre “Ma studiate l’anatomia, i vostri corpi non stanno in piedi!” Prima dei contorni, bisogna vedere lo scheletro; se occorre una traccia per fare il corpo, meglio non cimentarsi nemmeno, col nudo”. Le opere d’arte moderna che compongono la sua collezione, confi da, le ha trovate tutte ai mercatini: da uno Schiele comprato da ragazzo con Tazzoli a Parigi per sessanta dollari, a un de Koonig scovato al mercato di Borgo d’Ale. Un fiuto invidiabile. “Ho anche trovato per duecentomila lire una tela di Alfred Manassier (astrattista francese anni Quaranta, ndr): c’erano migliaia di persone, ma solo io ho intuito quanto fosse importante. E, sempre al mercato, un gesso di Boccioni: rarissimo, dal momento che suo padre li aveva spaccati quasi tutti, dopo la sua morte per una caduta da cavallo”. Da due mesi il maestro non dipinge per allestire due mostre: una a Milano; l’altra, una retrospettiva, al Museo del Pantheon a Parigi in autunno “Avrei anche molti disegni erotici, ma dove si potrebbero esporre in Italia?” “A Torino!”, esclamo d’impulso. La reazione è immediata: “Angelo mio, non ci siamo capiti: non ti fanno nemmeno l’articolo, io non sono del clan dell’arte povera!” Si sta bene, nel mondo di Colombotto Rosso. Quando si esce in giardino, la luce violenta quasi infastidisce e si vorrebbe rientrare in quel regno oscuro che protegge la sua ispirazione; un regno popolato di fi gure ambivalenti che, in sospeso fra il macabro e il sublime, rispecchiano, senza trucchi, le abissali contraddizioni della nostra anima. ? Tendenze Enrico Colombotto Rosso ci ha aperto le porte di casa sua a Camino Monferrato. Un luogo teatrale e ironicamente kitsch dove il Maestro continua a dipingere e a preparare mostre. Un artista unico e anticonformista, la cui carriera comincia da uno sportello di banca… 20 Anno IV – numero 5 Giugno 2008 Franco Caresio Esistono luoghi privilegiati dove più forti e quasi palpabili sembrano farsi le memorie del passato. Con la loro silenziosa presenza continuano a segnare percorsi antichi, ricordano un assetto territoriale e viario ora profondamente trasformato o del tutto cancellato; raccontano di uomini che hanno saputo integrare in una scelta di vita l’aspirazione della solitudine e dell’ascesi ai principi della carità, dell’accoglienza, dell’assistenza e della cura degli ammalati, soprattutto di quelle frange estreme che la società respingeva. L’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso è uno di questi luoghi. Fu fondata attorno al 1188 lungo l’antica via Francigena, forse trasferendo a valle una precedente fondazione a Susa e su terreni donati da Umberto III di Savoia detto “il Beato”. Le sue architetture sono fra le più importanti del tardo Medioevo piemontese e altrettanto valore hanno gli affreschi: anzi, proprio dalla fi rma lasciata da Giacomo Jaquerio ai piedi di una delicatissima Vergine in trono con Bambino e abate in preghiera si è sviluppato lo studio dell’arte fi gurativa piemontese fra Tre e Quattrocento. Il complesso in realtà non era un’abbazia, ma una precettoria dipendente dall’abbazia di Saint-Antoine-duViennois, nel Delfi nato, e rappresentava una delle tappe di quel sistema di luoghi di accoglienza i cui cardini erano la Sacra di San Michele, Novalesa e San Giusto di Susa (poi divenuta cattedrale). La croce commissa, o a Tau (in forma di una ‘T’ maiuscola), onnipresente a Ranverso, identifi cava Sant’Antonio, solitamente rappresentato con il bastone a Tau e seguito da un maiale. Il Santo era considerato il protettore degli animali domestici e l’inventore del sistema di curare col grasso di maiale l’Herpes Zoster, quel “Fuoco di Sant’Antonio” che aveva raggiunto forme endemiche e particolarmente gravi nel Medioevo e i cui malati venivano accomunati ai lebbrosi: col grasso si ricoprivano le piaghe evitando contatto con l’aria e attenuando il dolore. Proprio con lo scopo di assistere questi ammalati verso la fi ne dell’XI secolo era stato fondato in Francia, a La Motte-Saint Didier presso Vienne, l’istituto degli Ospedalieri di Sant’Antonio: i monaci indossavano un abito nero, segnato sul petto da una croce in forma di “T” in panno azzurro. Gli Antoniani furono i veri anticipatori di tutti gli ordini Ospedalieri. Preceduta da un ristretto sagrato, la facciata della chiesa si presenta nelle linee del gotico dell’ultimo trentennio del Quattrocento ed è segnata da tre alte ghimberghe concluse da pinnacoli e formate da ricche fasce di formelle in cotto, molte delle quali rappresentano foglie di quercia e ghiande (nutrimento del maiale). Nel portico, o nartece, si trovano le sculture più interessanti di tutto il complesso, alle quali lavorarono almeno due artisti, che nei capitelli e nelle mensole scolpirono teste di mostri con le fauci spalancate, di animali (bellissima l’immagine del cane con una pagnotta in bocca) e delicati volti femminili. Le mensole reggi-archi murate ai lati della porta di ingresso della chiesa presentano invece teste maschili, bifronti, ancora con rilevanti tracce di antica coloritura e ornamenti di foglie di quercia e ghiande. Quanto ai dipinti, sono pressoché scomparse le fi gure di angeli affrescate nelle lunette inferiori delle ghimberghe, ma altri sono ancora visibili nel portico. Dell’antico complesso rimane soprattutto la chiesa abbaziale, mentre dell’edifi cio dell’Ospedale solo la facciata si è conservata. Al tardo Trecento risalirebbe il campanile gotico, ricostruito sulla base di uno più antico e concluso da una cuspide ottagonale e quattro pinnacoli. La chiesa non segue un preciso principio di simmetria, e si nota una forte deviazione dell’abside rispetto all’asse della navata centrale. L’apparato decorativo interno ha subito le ingiurie del tempo e innumerevoli manomissioni. Le testimonianze più importanti e meglio conservate si trovano soprattutto nella luminosa area presbiteriale e nella piccola, raccolta sacrestia. L’abside è dominata dal maestoso polittico Natività, Santi e Storie di Sant’Antonio Abate, una delle opere più belle di Defendente Ferrari, che la dipinse fra il 1530 e il 1531 su committenza della Città di Moncalieri come ex voto per la liberazione dalla peste. Ben più antichi sono gli affreschi. Già in pieno Trecento le pareti dell’abside erano state affrescate con testine di “Angeli reggitenda”, di grande signifi cato simbolico. Su quel tendaggio dipinto fi guravano infatti la croce a Tau, la campanella dei lebbrosi, le fi ammelle evocanti il dolore del Fuoco di Sant’Antonio e le stelle a più punte simbolo di speranza. Questo affresco fu poi coperto da altre decorazioni, ed è stata la parziale caduta degli affreschi successivi a farlo riscoprire. Proprio gli affreschi successivi sono quelli di maggior valore artistico e storico. Tutto cominciò con un ritrovamento casuale. Nel 1914, durante restauri comm i s s i o n a t i dall’Ordine Mauriziano, proprietario del complesso dal 1776, furono rimossi gli stalli di un coro ligneo seicentesco addossati alle pareti dell’abside. Si scoprirono così parti di affreschi di cui si era persa memoria e, soprattutto, tornò alla luce una breve epigrafe in caratteri gotici, già allora frammentaria per una parziale abrasione, ma facilmente integrabile: (Picta) fuit ista capela p(er) manu(m) Jacobi Jaqueri de Taurino (“Questa cappella è stata dipinta dalla mano di Giacomo Jaquerio di Torino”). Era la prova che si cercava da tempo, anche se il nome di Jaquerio era già citato in altre fonti. Le parole “ista capela” indussero ad attribuire a Jaquerio o alla sua scuola tutti gli affreschi della chiesa e della sacrestia, e a datare la sua presenza a Ranverso attorno al 1430, quando cioè l’artista, morto quasi ottantenne nel 1453, aveva superato i sessant’anni. In realtà Giacomo Jaquerio vi avrebbe lavorato fra il 1396 e il 1406 e con la committenza per affrescare, come ha rivelato un documento scoperto di recente, le pareti attorno all’altare maggiore e le cappelle di San Biagio, della Maddalena e della Vergine. Non si parla, nel documento, degli affreschi della sacrestia o di altre parti della chiesa, ma nulla esclude che in anni successivi lo stesso Jaquerio o pittori A due passi da Torino, poco noto persino a molti piemontesi, c’è uno dei più alti esempi di architettura e pittura medievale del Piemonte. Era la precettoria di un ordine ospedaliero intitolato a Sant’Antonio Abate, che col grasso di maiale curava una delle più gravi malattie dell’epoca, quel “Fuoco” che proprio da lui prese il nome. Arte e storia onnipresente a Ranverso, identifi cava Sant’Antonio, solitamente rappresentato con il bastone a Tau e seguito da un maiale. Il Santo era considerato il scolpirono teste di mostri con le fauci spalancate, di animali (bellissima l’immagine del cane con una pagnotta in bocca) e delicati volti femminili. fu poi coperto da altre decorazioni, ed è stata la parziale caduta degli affreschi successivi a farlo riscoprire. Proprio gli affreschi successivi so- Sant’Antonio di Ranverso 21 Piemonte mese del suo atélier siano stati nuovamente chiamati a Ranverso. In realtà gli artisti al lavoro sul lato destro dell’abside furono diversi, e proprio su questa parete troviamo un affresco bellissimo, di genuina vena popolare: due villici tengono legati per le zampe due irsuti maiali. Li seguono, oltre il profi lo della nicchia, alcune pecore e una mucca dal manto fulvo. La parte superiore è invece dedicata alle Storie della Vita di Sant’Antonio Abate, in cui si rivela la mano di un artista raffinato, autore di una pittura tanto elegante quanto sobria e veloce. A Jaquerio erano stati attribuiti in passato anche gli affreschi della sacrestia. Il piccolo locale è interamente decorato con opere che sono tra le più note tra quelle del tardo Quattrocento in Piemonte. A cominciare dalla straordinaria scena della Salita al Calvario, raffigurazione potente di azioni e di gesti in un addensarsi selvaggio di personaggi, stendardi, alabarde, picche e bandiere. Con una buona dose di rude verismo e qualche accentuazione della cattiveria anche somatica, deformata e truculenta, degli aguzzini attorno alla fi gura centrale di Cristo, in lunga veste bianca, che porta la croce sulle spalle. Verismo da sacra rappresentazione medievale la cui concitazione sembra aver preso la mano dell’artista perché l’affresco rivela errori e assurdità. Ad esempio, nella parte inferiore del dipinto delimitata dal tronco trasversale della croce, davanti alla fi gura di Cristo e alle sue spalle compaiono gambe, piedi e parte di abiti di almeno cinque personaggi che non corrispondono come si dovrebbe con la parte superiore dei corpi di altrettante persone. Tuttavia la scena è talmente animata e densa da non far rilevare questi sia pur vistosi errori. Al carattere fortemente popolaresco della Salita al Calvario, si contrappongono gli altri affreschi della sacrestia. In particolare, l’Annunciazione e la Preghiera di Gesù nell’Orto del Getsemani. I due affreschi, uno di fronte all’altro, sono raffinatissimi esempi dell’arte di corte, sul fi lo della poesia del gotico internazionale. Ad altri due pittori, il primo di tradizione tardo-gotica, il secondo di più robusta tradizione popolare, sarebbero da attribuire le fi gure degli Evangelisti con i loro simboli apocalittici sulle quattro vele della volta, e i Santi Pietro e Paolo sulla parete di fronte alla Salita al Calvario. All’opera diretta di Jaquerio e del suo laboratorio sono invece da assegnare gli affreschi della cappella di San Biagio, in precario stato di conservazione, ma ancora in grado di restituire il tocco veloce, le lucide atmosfere tra naturalismo e racconto fi abesco, le movenze eleganti, i personaggi (molto bello il volto maschile nel sottarco tra la cappella e la navata centrale) conosciuti nelle opere certe del pittore torinese. Nella stessa cappella sarebbero invece opera di altri artisti, e realizzate in anni diversi, le fi gure di santi negli sguanci della fi nestra e i Simboli evangelici nelle vele della volta. Riferibili alla mano di Jaquerio anche alcuni frammenti della Cappella della Maddalena (in particolare la piccola scena frammentaria di eleganti personaggi davanti alle mura di un castello) e di quella della Vergine, nelle fi gure di San Dionigi e di Sant’Eutropio negli sguanci della fi nestra. Immagini: L. Cremoni ©Michelangelo Carta Editore ? Arte e storia Fuori dai denti È a due passi da Torino, più o meno a metà strada fra Rivoli e Avigliana. Eppure capita spesso di parlare con dei piemontesi, anche persone che hanno visitato mezzo mondo e conoscono le grandi cattedrali europee come le loro tasche, che a Sant’Antonio di Ranverso non ci sono mai stati. La solita esterofi lia, certo, ma anche l’endemica inadeguatezza del Piemonte nell’esaltare e comunicare le proprie bellezze, anche ai piemontesi stessi. E se per luoghi come Venaria, il Museo Egizio o molte dimore sabaude la questione pare felicemente risolta, in altri casi, e clamorosi, le cose stanno diversamente, anche perché entrano in gioco elementi che non hanno nulla a che fare con l’arte o la comunicazione del Piemonte ma sono invece legati a questioni politico-burocratiche. Primo fra tutti il gran pasticcio collegato alla molto ingloriosa fi ne dell’Ordine Mauriziano e alle infi nite lungaggini, liti, limiti di competenza e oceani di incompetenza, incuria e rimbalzi di responsabilità che hanno portato un inestimabile patrimonio artistico e culturale sull’orlo del collasso. Quanto è grave tutto ciò? Non lo so: quanto valgono, artisticamente e storicamente, la Palazzina di Caccia di Stupinigi e le sue pertinenze, la Basilica Mauriziana di Torino, l’abbazia di Staffarda e Sant’Antonio di Ranverso, per non citare che le gemme più note e preziose di quel diadema? Tesori insostituibili di storia, architettura e arte che stanno andando in malora o ci sono già andati. Stupinigi è, si spera, in restauro. Era ora, anzi l’ora era passata da un bel po’: la balconata del salone centrale era talmente pericolante che quando ci andai per fare delle riprese fotografi che mi domandarono quanto pesavo, perché non era sicuro che il pavimento mi reggesse, e vi posso assicurare che camminare là sopra non è stato piacevole. Non solo per i buchi nel pavimento, ma per la sporcizia, gli escrementi di topi e di uccelli che lordavano gli stucchi, le cartacce e gli involti di caramelle, merendine e bibite (ci si domanda chi le avesse lasciate lì, visto che il luogo non era aperto al pubblico, ma di che stupirsi, visto che per fotografare la scrivania del Prinotto dovetti prima spolverarla almeno un po’, e non vi dico l’apprensione nel toccare un pezzo tanto prezioso e la rabbia nel vederlo così trascurato). Il resto della Palazzina non se la passava meglio, con parecchi soffi tti che avevano una gran voglia di schiantarsi sui Piffetti o i Bonzanigo sottostanti… E Staffarda? Tutto bene nella parte della chiesa e del chiostro. Ma appena ci si inoltra nell’ex parte conventuale, un dedalo affascinante di passaggi suggestivi e corridoi sui quali si affacciano le antiche celle dei monaci, il cuore sanguina e la bile ribolle: crateri nel soffi tto, ciarpame dappertutto, mucchi di guano qua e là, uccelli morti, escrementi di topi. E dopo tutto questo, si entra in una stanza abbandonata come tutto il resto, con dentro la solita raccolta di rottami e in una nicchia, dietro due ante di legno, una meravigliosa Lactatio Virginis tardo medievale, purissima e struggente in mezzo a tanto obbrobrio… Come sempre, Roma (o Torino) discute e Sagunto brucia. Ma davvero è così importante stabilire chi deve fare cosa? Forse sì, ma accidenti, sono anni e anni che va avanti questa tiritera, e si spendono quattrini a palate per pagare consulenti, commissari e burocrazie varie. Tutti arrivano, dicono peste e corna dei predecessori, fanno promesse e se ne vanno. E intanto i muri marciscono, gli arredi vengono rubati e (a volte) ritrovati, i soffi tti cedono, gli stucchi si sgretolano, piccioni e topi la fanno da padroni. Mancano i soldi per i restauri: com’è che per fare gli stadi si trovano subito? Se quelle meraviglie sono ancora in piedi lo si deve solo al genio di chi li ha progettati e costruiti, ma l’imbecillità della burocrazia sa distruggere anche i muri più solidi. Lucilla Cremoni