di Armando Polito
Per lo studioso o il semplice appassionato di etimologia forse la situazione più irritante e disarmante è trovarsi di fronte ad un vocabolo in cui la spiegazione della radice è incontrovertibile ma l’origine del resto non appare chiara.
È il caso di fòcara, una delle voci dialettali salentine forse più nota al mondo. Chi non sarebbe disposto a mettere, è il caso di dire, la mano sul fuoco pensando che fòcara deriva da fuoco? E che, derivando fuoco (in dialetto salentino focu o fuècu a seconda delle zone) dal latino focu(m), alla sua radice (foc-) corrisponde il segmento iniziale di fòcara? Già, ma da dove viene -ara-?
Fòcara per il Rohlfs è “da focus col suffisso di làmpara”; e a ?làmpara: dopo la sigla L15 (corrispondente al testo Materiali lessicali e folkloristici greco-otrantini raccolti da Pasquale Lefons ed altri e pubblicati da Giuseppe Gabrieli; estratto da Studi bizantini e neoellenici, v. III, 1931, p. 107-149) si legge: “lampàra (Corigliano)=vampa, fiammata”.
Mi pare necessario un approfondimento, altrimenti che post sarebbe?
A pag. 10 del suo vocabolario a commento di L15 leggo: “Il lessico del dialetto greco-otrantino di Calimera contiene molti vocaboli che dai dialetti italiani in epoca più o meno recente si sono infiltrati nel linguaggio greco. Riproduciamo nel nostro vocabolario soltanto gli elementi d’origine italiana o latina; vedi però pag. 10”; a p. 10: “Dei dialetti greci parlati nella provincia di Lecce registriamo soltanto quegli elementi che sono di origine latina (romanza) o che possono avere un valore speciale per l’etimologia dei vocaboli dialettali italiani. Abbiamo distinto questi elementi con il segno ? che precede la voce in questione”.
Ora làmpara è registrata con quel segno in testa ma dopo per Corigliano è attestato lampàra. Come mai questo cambiamento d’accento? Me lo sono chiesto immediatamente e non ho trovato altra spiegazione se non considerando lampàra dal greco λαμπ?δα (leggi lampàda) con passaggio δ>r come è successo, per esempio, nel napoletano renàre rispetto a denaro, ma con conservazione dello stesso accento. Làmpara, invece, non sarebbe altro che la trascrizione dell’italiano làmpada (sempre col passaggio fonetico prima descritto ) che è dal latino làmpada(m), accusativo da làmpada/làmpadae (Ia declinazione) oppure da làmpada, accusativo alla greca da lampas/làmpadis (III declinazione), forma più vicina della prima al già citato greco λαμπ?δα (lampada), accusativo di λαμπ?ς/λαμπ?δος (leggi lampàs/lampàdos). Lo spostamento d’accento dal greco λαμπ?δα al latino làmpada è assolutamente normale poiché la a della (penultima) sillaba –pa– è breve come lo era la α della sillaba –π?– originaria; perciò: λαμπ?δα>làmpada. È in base a questa ricostruzione (l’unica, secondo me, possibile e traibile dalla necessariamente lapidaria trattazione di un lemma richiesta da qualsiasi vocabolario) che il Rohlfs ipotizza che fòcara abbia mediato il suffisso da làmpara, per cui in buona sostanza fòcara sarebbe una voce bastarda, nata, cioè dalla fusione di una radice latina (foc-) con un suffisso (-ara) mediato da una parola greca (λαμπ?δα), da cui per dissimilazione lampàra in italiano) e con assunzione dell’accento ritratto di una sillaba dopo il suo passaggio in latino (làmpada o làmpadam).
Forse in questo groviglio, inestricabile agli occhi di uno totalmente profano in questo campo, il maestro si è fatto guidare dall’idea che alla facilmente presumibile origine antica della fòcara dovesse corrispondere un nome antico o che almeno in qualche suo componente ricordasse tale antichità.
Non ci aiutano neppure le osservazioni che seguono: a Manduria (Ta) è in uso fòcula che a me sembra parallelo al fòcora che s’incontra nell’italiano dei primi secoli: tràgemi d’este fòcora, se t’este a bolontate (Cielo d’Alcamo, Contrasto v. 3); volare per lo cielo, fòcora , fiamme e tempestate (Anonimo romano del XIV secolo, Cronica, XVIII). Questo fòcora, chiaramente plurale per via di este che l’accompagna nella prima citazione e che come singolare tra voci plurali (fiamme e tempestate) sarebbe stato come un pesce fuor d’acqua, ricorda il valore collettivo che lo stesso Rohlfs mette in campo per àcura=aguglia: “propriamente un plurale: latino volgare acora=aghi”. Se, dunque, *àcora (ho aggiunto l’asterisco perché si tratta di voce non attestata ma ricostruita e l’accento che manca nella citazione originale) è da acus, perché fòcora non dovrebbe essere da focus seguendo in questo, una tendenza che spesso si manifesta con una fedeltà assoluta all’originale latino? Cito gli esempi di li còrpora (=i corpi) e li tèmpora (=i tempi) presenti in molti testi in volgare siciliano (tèmpora, è passato, addirittura, dal latino attraverso il portoghese nel XVII secolo nel giapponese tempura!), e non solo, del XIV secolo (nel dialetto neretino, poi, in li quattru tèmpure c’è stata la regolarizzazione nella desinenza di un tèmpora presunto singolare). Insomma, fòcora/fòcula sono entrambi da focus, ma con fòcara c’è coincidenza di accento, non di suffisso.
Per completare il quadro va detto che un focara come uno degli attrezzi utilizzati nella fusione del piombo o come scaldaletto è attestato a partire dal XVII secolo : ” … et dal capo rilevato di detta forma, dove sarà la sponda, sia una focara, la qual’habbia il fuoco sotto …”(Gioseffe Viola Zanini, Della architettura, Cadorino, Padova, 1678, pag. 72) ; “La foglia secca all’ombra appesa a un solaro, non al Sole, né al vento, né al fuoco, et posta ad abbrusciare sopra uno scaldaletto, ò focara …” (Carlo Stefano, L’agricoltura e casa di villa, traduzione di Hercole Cato, Ginammi, Venezia, 1648, pag. 119). Sicuramente la voce è da leggersi focàra, da fuoco come calcàra da calce. Qui c’è coincidenza del suffisso ma non dell’accento.
E siamo al punto di partenza, nonostante la certezza che tutte le voci riportate per tentare di dipanare la matassa si basano sulla radice del latino focus.